• Cronache da Rimini

  • Oggi Eugenio Scalfari compie 95 anni.
    Già in passato ho ricordato quale funzione abbia avuto, nella mia formazione culturale, il suo ruolo di esperto di Economia.
    Riproduco qui sotto una pagina apparsa il 29 luglio 2007 nel blog che gestivo nel sito del quotidiana "La Stampa" di Torino.
    Premetto un'autocitazione. Scrivendo degli anni delle Magistrali, ho osservato che un mio grande professore di Lettere in classe terza, fu Eraldo Campagna. Con un difetto metodologico: non amava molto la Storia. Nel libro di testo usato allora, ho ancora i «no» relativi ad importanti argomenti che ci fece 'saltare'. Era gustosamente polemico.
    Torniamo alla pagina del 2007. Il passo principale è qui:

    Verso le grandi penne che ho frequentato, nutro affetto e simpatia. Tra loro, c'è Eugenio Scalfari, il fondatore di «Repubblica», alle cui letture di mezzo secolo fa, quando egli era all'«Espresso» ed io un ragazzino chiuso nel provinciale umanesimo scolastico del tempo, debbo l'insegnamento di regole e vizi della economia. I suoi scritti mi sono serviti a comprendere meglio i problemi storici e quelli di attualità anche negli anni successivi.

    Chiudo le virgolette, per fare gli auguri per i suoi 95 anni al Maestro Scalfari, che dal 1975 leggo su «Repubblica», e da molto prima sull'«Espresso», fondato nel 1955.

    Ai miei ricordi di scuola:
    Amarcord la scuola
    Ricordi di scuola, edizione 2017
    Viva la squola. Memorie tra pubblico e privato
    .

    Antonio Montanari

    Foto ripresa dalla home di Repubblica di oggi, sul web.


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  • 1998, il muro contro Montanari
    Per aver tentato di ristabilire il vero su don Montali


    La difesa della verità storica, in un articolo del 1998, che poi mi ha creato dei muri per farmi tacere e non farmi più scrivere.

    Don Montali, la Chiesa e il fascismo
    "il Ponte", 1998/04

    In numerosi articoli sul «Diario Cattolico» il sacerdote di San Lorenzino espresse aperta condanna della politica nazionalistica seguita da Germania ed Italia. La beffa letteraria di chiamare Mussolini «grande chirurgo»


    Non vorrei che questo scritto potesse trasferire a me, in base alla proprietà transitiva, il giusto giudizio che il direttore Giovanni Tonelli ha espresso sul testo che ho prodotto relativamente ai secondi dieci anni del «Ponte»: «libro non simpatico», perché riporta alcune verità scomode tolte direttamente dai fatti e dalle cronache del nostro foglio.
    È difficile ed antipatico (appunto) intervenire su cose che sono apparse in questo stesso giornale, oltre tutto se esse costituiscono un argomento serio, che appunto per questa sua qualità richiede una lettura non superficiale ed una valutazione complessa che potrebbe apparire quasi il gesto orgoglioso di chi «sale in cattedra». Questa mia nota potrà apparire condizionata da un giudizio soggettivamente negativo sul modo in cui l'argomento in questione (che preciserò subito), è stato affrontato. Dovrò pertanto dimostrare che tale mio giudizio non nasce da una posizione arbitraria (di 'gusto' personale), ma da un esame obbiettivo dei fatti e del loro contesto.
    Ho letto sul «Ponte» n. 1/1998 l'inserto dedicato alla storia del «Diario Cattolico» in cui Manlio Masini parla anche di don Giovanni Montali. Chi ha scritto la biografia di un qualche personaggio, finisce per essere una specie di suo avvocato d'ufficio per difenderne il rispetto della memoria. Mi è già occorso di intervenire su queste colonne allorché qui si 'rubarono' a Romolo Comandini certe sue scoperte storiografiche, ed in precedenza quando si polemizzò sull'interpretazione del ruolo svolto dallo stesso don Montali nella vicenda umana e religiosa di Romolo Murri.
    Dunque, in quell'inserto scritto da Manlio Masini, don Montali viene citato due volte. Riporto da pag. 46 la prima volta: il prete di San Lorenzino «per moderare l'irruenza “danzareccia” che imperversa nelle parrocchie, non bada a spese: non solo sollecita l'aiuto delle alte sfere del fascismo, ma invoca addirittura anche quello del “grande capo”». Segue un passo di don Montali in cui Mussolini viene chiamato «chirurgo provvidenziale». Trovo infine un'osservazione di Masini a proposito del «Diario Cattolico», secondo la quale tale giornale disserterebbe «in piena assonanza con il regime».
    Mi permetto di far osservare:
    1. Don Montali scrisse ripetutamente sul «Diario Cattolico». Con tutte le precauzioni necessarie sotto una dittatura (tale era il fascismo, non un fatto folcloristico, come piacerebbe ai molti 'revisionisti' che oggi vanno di moda, i quali non si sono ancora accorti della 'svolta' di Fini), don Montali il 24 marzo '33 accenna al problema della valutazione del nazionalismo. La Chiesa domanda che esso sia «cristiano, cioè rispettoso dei diritti degli altri». È un brano che al lettore attento spiega molte cose. Appare già qui un giudizio negativo sulla guerra («che condurrebbe su tutto l'universo un cataclisma spaventoso»), il quale diventa una condanna della politica del fascismo che aveva come sbocco inevitabile proprio la guerra.
    2. In altro articolo sul corporativismo (del 18.5.'35), don Montali rivendica l'importanza della dottrina sociale della Chiesa e di Leone XIII («Rerum Novarum»). Su questo aspetto ritorno in seguito.
    3. Il 13 febbraio '35 don Montali esprime la condanna del nazismo, fondato da quell'Adolf Hitler che si considerava discepolo di Benito Mussolini.
    4. Ci sono altri scritti di don Montali, sempre del '35, di profonda critica del nazismo, con pure una citazione dalla «Lettera pastorale» dei Vescovi tedeschi la quale dichiarava che, quando le leggi «sono contrarie al diritto naturale e ai comandamenti di Dio, si deve obbedire a Dio prima che agli uomini». Parole che significano qualcosa in un tempo in cui il motto era «credere, obbedire e combattere». Il «credere» dei cristiani doveva essere qualcosa di diverso, mi pare di poter sostenere, rispetto al «credere» della cultura fascista. Così il «combattere» la buona battaglia, anche se molti ingenuamente credetto che essa fosse quella della guerra: ma questo è una ramo delle presenti argomentazioni, che richiederebbe un'ampia trattazione impossibile per ragioni di spazio.
    Questi articoli di don Montali sono esaminati più a fondo nella mia biografia del prete di San Lorenzino, edita dal Ponte nel 1993, ai capitoli XIII e XV (pagg. 135-142 e 147-149). Alle pagg. 139-140 ricordo che «parlare di fatti che avvenivano al di là delle nostre frontiere, era pure un modo di aggirare gli ostacoli della censura nazionale e di trattare di problemi anche italiani, senza dar troppo nell'occhio (almeno in apparenza)».
    Chiedo scusa se da quel libro debbo ancora citare qualche altro passo: a proposito della questione del corporativismo, ho spiegato che negli scritti di don Montali «non dobbiamo cercare un'impossibile adesione alla dottrina fascista, ma piuttosto un modo per riproporre (con i limiti esistenti nel quadro politico e sociale del tempo), i temi della giustizia sociale in chiave cristiana, così come erano stati affrontati anche all'inizio del secolo» (p. 140). Don Montali ripropone il pensiero di Leone XIII, considerato “socialista” dai benpensanti. Sul tema si vedano gli articoli (inconfutabili) dello stesso sacerdote sulla Gioventù Operaia Cristiana apparsi nel «Diario Cattolico».
    5. Il 16 aprile 1937 don Montali ritorna sul tema del nazismo, e commenta l'encliclica di Pio XI «Con affannosa cura» che riguarda la persecuzione religiosa in Germania: nello stesso numero, in altra nota, Don Montali riferisce criticamente anche del libro «La guerra integrale» di Erich Ludendorff. Sull'encliclica di Pio XI, il «Diario Cattolico» torna il 2 ottobre '37 nell'articolo intitolato «Non prevarranno».
    La (prima) citazione dell'inserto di Masini dalla quale sono partito, è presente anch'essa nella citata biografia di don Montali. La storiella del «chirurgo provvidenziale» merita una postilla che faccio riprendendo direttamente dal mio volume (pag. 144): «Quando, negli articoli del 'Diario Cattolico', don Montali attacca il ballo e ricorre a citazioni della nuova mistica fascista, non inneggia al regime, ma anzi ne fa una satira pungente, usando contro di esso quella retorica che ne costituiva l'ossatura. Conoscendo bene l'antifascismo di don Montali non deve trarre in inganno il tono a cui egli fa ricorso quando scrive che il nuovo Stato si è assunto il compito di fare “cittadini forti, integri, maschiamente responsabili di una missione di valore, di difesa nazionale, di bontà”».
    Da provetto scrittore qual era, don Montali, ricorre qui a due strumenti stilistici, l'ironia e la parodia. E l'analisi letteraria, se la si compie con il minimo delle cognizioni necessarie, ci conduce a chiari risultati. Il senso di questa prima citazione non lo si percepisce se non si considerano in precedenza i cinque punti elencati.
    Veniamo alla seconda citazione dall'inserto: si riferisce ad un articolo di don Montali del 5 novembre '38, «Contro la guerra». Al proposito Masini scrive che il nostro sacerdote è tra i pochi che «escono dal coro», come se tutti gli altri sacerdoti riminesi fossero favorevoli al massacro imminente. Lo stesso titolo dell'articolo («Contro la guerra») è la sintesi del pensiero ufficiale della Chiesa di Roma. Lasciamo perdere i vaneggiamenti di don Garattoni sulla «luce di Roma» che non era quella della Cattedra di Pietro: più di lui conta il Magistero papale che viene chiaramente interpretato da don Montali nei suoi pezzi e seguito da quel giornale il quale (sostiene Masini) disserta «in piena assonanza con il regime».
    Inoltre non va dimenticato che tale articolo del 5 novembre '38 appartiene alla serie della «Lex amandi», ispirata al sacerdote di San Lorenzino da Romolo Murri (vedi alle pp. 147-149 della biografia).
    Credo, infine, che non sia un particolare di secondaria importanza la considerazione del fatto che, durante i colpi di coda del fascismo (all'epoca della terribile «repubblichina» di Salò, la quale resta tale nonostante lo spirito di pacificazione di Violante), si cercò don Montali in canonica per farlo fuori. Ed in sua vece furono poi uccisi i suoi due fratelli, che nessuna lapide a Riccione ricorda.
    Chiedo scusa per la lunga lettera, che unicamente un problema di coscienza mi ha spinto a scrivere. Non ho voluto impartire nessuna lezione di metodologia storiografica e di scrittura storica, ma semplicemente segnalare che la semplice lettura antologica di brani non permette un pronto e veloce ritratto di un personaggio, per la qual cosa si richiede un'analisi rispettosa del personaggio stesso e della verità dei fatti.
    Antonio Montanari

    Don Giovanni Montali in Riministoria:
    Don Montali, la Chiesa e il fascismo
    San Lorenzo in Strada, angolo d'Europa: don Giovanni Montali scrittore
    La Cassa Rurale di Riccione (1914) ed il suo fondatore don Giovanni Montali


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  • il Rimino Sottovoce 2018
    Gli Eredi Gambalunga
    con terreni e case alle Celle

    Alessandro Gambalunga il 12 agosto 1619, data della sua scomparsa, lascia in eredità alla Città di Rimini la propria biblioteca: è la prima biblioteca "civica" d'Italia, e si trova nel Palazzo da lui eretto tra 1609 e 1614.
    Giureconsulto, Gambalunga era nipote di un muratore di Carpi giunto qui nel sec. XVI, poi arricchitosi con la mercatura ed il traffico di ferro.
    Rimini aveva allora un'altra biblioteca, aperta a tutti (ovvero "pubblica", la prima in Italia): quella di San Francesco, a fianco del Tempio di Sigismondo, nata per volere di Galeotto Roberto Malatesti (1430).



    Gli eredi Gambalunga sono proprietari di due case coloniche e di annessi terreni nella parrocchia di Santa Maria delle Celle, lungo il fiume Marecchia e verso il mare, come si legge in atti dell'Archivio di Stato di Rimini sui danni provocati dal terremoto del 1786.
    Alle Celle allora ci sono 41 case (di cui tre oratorii) con 273 anime. E 14 delle 459 case ecclesiastiche cittadine. Le anime delle Celle sono lo 0,67% della città, le case lo 0,57%.
    I tre oratorii sono le chiese delle Celle, di Viserba e della Madonna della Scala.
    Le 41 case sono l'1,87% della città, le 273 anime il 2,24% della popolazione riminese.
    Tra le 41 case, 14 sono di ecclesiastici (10 Luoghi Pii, 4 della Rev. Camera Apostolica), 4 dei Poveri (Filippo Ugolini più tre di nobili, Giovanni Maria Pastoni [2 case] e Maddalena Pastoni); e 22 sono di "non poveri". Una casa è detta "ruinata".
    I beni degli eredi Gambalunga sono attestati dal testamento di Alessandro (11.8.1619). Altri nobili con possessioni alle Celle sono gli Agolanti, i Cima e i Martinelli.
    Rimini, dicono i documenti del 1786, è divisa in 23 parrocchie tra Città, Bargellato e Contado. Le persone della Città sono 12.146 (29,95%) in 2.191 case. Nei borghi le case sono 1.594 con 11.607 persone (28,61%). Nel contado ci sono 3.320 case con 16.811 persone (41,44%). I totali indicano 7.105 case e 40.564 persone.



    Quattro anni prima della morte di Gambalunga, nel 1615 sono cacciati da Rimini gli Ebrei. Un'insurrezione popolare distrugge il loro ghetto. Nel 1614 c'è stata una gravissima inondazione della Marecchia unitasi ad altri fiumi. Nel 1672 il giovedì santo un terremoto devasta la città.
    Alle Celle arrivava dal Ponte di Tiberio la Fiera di San Giuliano nata nel 1351. È la zona detta del Borgo Nuovo di San Giuliano, eretto dopo la distruzione del 1469 con le bombe di Papa Paolo II.
    Antonio Montanari



    Antonio Montanari - 47921 Rimini. - Via Emilia 23 (Celle). Tel. 0541.740173
    RIMINISTORIA è un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", è da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 7.3.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416", pubblicata nellaGazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2001.
    2785, 25.05.2018


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  • Testo apparso sul blog dei lettori della “Stampa” di Torino il 3 febbraio 2008.

    Avevo pochi mesi quando all'inizio del 1943 il fratello di mia madre, Guido Nozzoli, fu arrestato a Bologna con due imputazioni: attività sovversiva mediante distribuzione di volantini intitolati «Non credere, non obbedire, non combattere», e possesso di libri proibiti dal regime tra cui il "Tallone di ferro" di London o "La madre di Gor'kij", peraltro venduti anche sulle bancarelle.
    Mia madre ricordava la perquisizione fatta dalla polizia in casa nostra, a Rimini, nel palazzo Lettimi di via Tempio Malatestiano.
    Guido Nozzoli racconterà poi: «Ero stato "venduto" da un conoscente laureato in legge che si dichiarava fervente antifascista ed era, invece, uno dei tanti informatori dell'O.V.R.A., l'insidiosissima polizia segreta "inventata" dal prefetto Bocchini. Io non ho mai denunciato il provocatore che poté concludere tranquillamente la sua carriera. Dopo la liberazione, tra i documenti recuperati all'Ufficio Politico della Questura dai partigiani forlivesi, c'era anche la ricevuta del compenso intascato dal nostro delatore; la duplice spiata gli aveva fruttato 300 lire. A peso, eravamo stati valutati a un prezzo di molto inferiore a quello della carne da brodo».
    Nozzoli scrisse la storia di Arrigo Boldrini (recentemente scomparso) nel libro "Quelli di Bulow" ripubblicato dagli Editori Riuniti nel 2005.
    Quel libro non è mai stato presentato dal 2005 nella città in cui Nozzoli nacque e morì, Rimini. Nemmeno da chi per compiti statutari avrebbe dovuto farlo in nome della Resistenza. (Risparmio al lettore tutti i particolari documentari.)
    Forse l'argomento non interessa più nemmeno a chi ne dovrebbe parlare? (Nella foto, i Tre Martiri di Rimini impiccati dai nazi-fascisti il 16 agosto 1944. Nessuno di loro, sotto tortura, fece i nomi dei compagni, tra cui c'era anche Nozzoli.)
    Credo personalmente alle parole di Reichlin sulla dimenticanza circa il ricordo della Resistenza nel manifesto fondativo del Pd. Ma certe cose che si sentono da esponenti importanti del Pd, democratici per modo di dire che hanno preso il treno in corsa o si sono trovati il posto prenotato da qualche "agenzia", non mi fanno bene sperare né sul presente né sul futuro del Pd, anche se il manifesto citerà la Resistenza. Certi vuoti di memoria sono (erano) voluti, non occasionali. Nella speranza illusoria di rimediare voti, forse.
    Voglio ricordare un altro motivo per cui la memoria di Guido Nozzoli andrebbe onorata politicamente nella sua città.
    Settembre 1944. Gli Alleati avanzano verso Rimini.
    Da San Marino, alcuni partigiani riminesi scendono verso la loro città nel pomeriggio del 19 settembre, mentre si combatte la battaglia per la presa di Borgo Maggiore. Li comanda il sottotenente Guido Nozzoli: «Il nostro era il primo nucleo partigiano che l'Ottava armata incontrava sulla Linea gotica. Avvicinai un ufficiale per informarlo sul disfacimento delle difese tedesche a San Marino e sulla drammatica situazione dei civili rintanati nelle gallerie, ed ebbi la sensazione che non mi ascoltasse neppure. Mi ero ingannato».
    Ad un ufficiale dell'Intelligence Service, «avvolto in una nube di profumo», Nozzoli ripete più minuziosamente il racconto. L'indomani mattina un sottotenente confida a Nozzoli «che il Comando aveva accertato l'esattezza» delle informazioni fornite sullo schieramento tedesco e sulla ubicazione dei campi minati, «rinunciando al bombardamento di spianamento di San Marino programmato prima» dell'arrivo di quel gruppetto di partigiani. Il Titano era salvo con i suoi centomila e passa rifugiati.
    Un suo 'avversario' politico, il socialista romagnolo Stefano Servadei, ha detto che Guido Nozzoli è stato «una grande “coscienza civile”. Per lui la “verità” veniva prima della “rivoluzione”».
    Personalmente non ho mai condiviso le idee politiche di mio zio, ma vado orgoglioso del salvataggio di quei centomila e passa sfollati a San Marino, tra i quali c'ero pure io con i miei genitori, compiuto da lui, e del suo adoperarsi (dopo il passaggio del fronte) perché si evitassero a Rimini quelle vendette che invece si verificarono nel "triangolo rosso", come mi è stato testimoniato da persone informate dei fatti.
    [Anno III, post n. 36 (413)]

    Vuoti di memoria, Rimini 1943.

    Segnalazione del giorno successivo.


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  • 24.07.2014.  Turismo ieri ed oggi.
    Rimini, una vocazione da rispettare.
    Turismo, una vocazione da rispettare L'intervento di Giorgio Montanari sulle «varie tipologie vacanziere» («Corriere di Romagna» del 21.07) mette a fuoco aspetti fondamentali del nostro turismo, che riguardano ciò che un tempo si chiamava la vocazione delle località balneari. Purtroppo, negli ultimi decenni, si è passati dallo sviluppo di quella vocazione, storicamente consolidata, all'invenzione di modelli miseramente falliti.
    A Rimini si è tentato di sostituire la città del mare con quella della notte. Successivamente hanno meditato sul «modello Dubai», con grattacieli in riva al mare, per un futuro radioso di cemento che minacciava di cancellare la fisionomia delle nostre coste e della nostra cultura. La crisi economica, mondiale prima e nazionale poi, ha messo in ginocchio, anche a causa di altri fattori come quelli elegantemente detti malavitosi, un sistema economico che era frutto del sacrificio di tante persone che l'avevano creato, garantendo un'occupazione stagionale invidiata dal resto d'Italia.
    Per Rimini tutto ciò è gelosamente simboleggiato dalle ruspe del TRC che, nella «zona Lagomaggio», hanno demolito pezzi di case costruite negli anni del boom con tanti sacrifici, quando la camera da letto era data in affitto, e tutta la famiglia si trasferiva in un timido e ristretto garage.
    Oggi così va il mondo. Dimenticare il passato permette di ipotizzare che Rimini-città non debba essere sviluppata come luogo turistico. Essa non è soltanto un'appendice fondamentale della marina. Perché la città protegge e garantisce la marina.
    Nessuno vuol voltare le spalle al mare: si tranquillizzi il sindaco di Rimini, intervenuto il 18 luglio scorso («Corriere di Romagna»). Promettere nuove fogne non è un'impresa eroica, né un dono per interventi soprannaturali. Si tratta di ordinaria amministrazione.
    Molto efficace lo slogan propostoci dal sindaco: «Da città sul mare a città di mare». Ma in sostanza il discorso non cambia. Il mare non vive senza una città dietro di sé, che diventa un valore aggiunto per un turismo consapevole che esso, come tutta la vita comunitaria, non è un «credere, obbedire, combattere» di tragica memoria.
    Ma, come per la cultura, è confronto e dialogo, dove nessuno può pretendere di avere sempre ragione. E ciò vale per chi rappresenta la «Cosa pubblica» e per chi agisce in nome del «Privato», che mai è stato un'opera caritatevole vocata alla perdita dei soldi investiti. Come ci si vuol fare credere ora, per certe situazioni in crisi o disperate, nonostante proclami di futuri bilanci positivi.
    La «zona Lagomaggio» violentata dal TRC è proprio il simbolo all'incontrario di quella «città di mare» a cui pensa il sindaco di Rimini nell'articolo del 18 luglio. Ma come si fa a conciliare il suo programma con i fatti che l'Amministrazione comunale di Rimini approva e condivide, anche se smentiscono quel programma? Il TRC non è un'opinione, è una dura realtà.
    I ruderi di Palazzo Lettimi in pieno centro, invece di essere utilizzati come ambiente «parigino» (definizione ufficiale del Comune) per recite o concerti, dovrebbero diventare un luogo della memoria, un archivio ben sistemato e protetto di immagini della città e del suo mare, a 70 anni dalla Liberazione di Rimini e dalla fine di quel dramma che fu la guerra che rase al suolo tutta la città.

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA

    [Questo testo è stato pubblicato nella pagina delle lettere del «Corriere Romagna» del 28 luglio 2014.]


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